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«Abitavo nella strada di fronte, che allora si chiamava via Vienna. Ho visto l’incendio dalle finestre di casa mia che si trovava a quattro-cinque fabbricati di distanza. Mi ricordo di aver visto le fiamme e di aver udito un paio di spari». Me lo lo aveva raccontato così Gillo Dorfles, un paio di anni fa, il suo ricordo di quando i fascisti incendiarono il Narodni Dom, la casa della cultura slovena, a Trieste, il 13 luglio 1920. «Il vero battesimo dello squadrismo organizzato» disse Renzo De Felice.

Di quell’atto rimane in vita un altro testimone oculare, Boris Pahor, 104 anni. Lo aveva rievocato in questo modo: «Abitavo un poco più in su, dove il tram di Opcina viene attaccato alla macchina che lo trascina in salita. Io e mia sorella siamo scappati da casa e ci siamo fermati al caffè Fabris. La piazza era libera perché il grande edificio che sta davanti al Narodni Dom non era ancora stato costruito. Il posto era gremito di gente che batteva le mani, di fascisti che cantavano. C’era un gran baccano, i pompieri cercavano di collegare le manichette tagliate dai fascisti, l’acqua scorreva per tutta la piazza. Era un rogo di sei piani, mastodontico. Io avevo sette anni, non capivo niente, ma ero rimasto impressionato da quel fuoco. Tra l’altro l’anno prima, nel 1919, eravamo andati a celebrare san Nicolò proprio in una sala all’interno di quel palazzo. C’erano san Nicolò che dava i regali ai bambini e i diavoli che cercavano di impedirglielo. Mia sorella era scoppiata a piangere a causa di uno dei diavoli e allora questo ha cercato di calmarla rivelandole chi fosse, ovvero la figlia del proprietario del vicino hotel Posta, pure lui uno sloveno».

Dorfles e Pahor erano lì entrambi, quel 13 luglio 1920, ma non si erano conosciuti, né allora, né mai. Mi sarebbe piaciuto far incontrare i due grandi vecchi triestini. Non ci sono riuscito, non ci riuscirò più.