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Trieste, 18 agosto 1915, si celebra per le penultima volta il genetliaco di Sua maestà il re e imperatore, Francesco Giuseppe I. Sarebbe morto nel novembre 1916 e due anni più tardi sarebbe definitivamente scoparso il suo mondo (leggere: Joseph Roth, La marcia di Radetzky, Adelphi e Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori). Per la penultima volta si intona il Kaiserhymne, che aveva una versione in tutte le lingue ufficiali della monarchia austroungarica e l’italiano era fra quelle. Cominciava con la strofa «Serbi dio l’austriaco regno/ salvi il nostro imperator», leggendo tutto assieme era stato scherzosamante (e con un po’ di disprezzo) ribattezzato il «Serbidìola».

La Duplice monarchia era in guerra da tre mesi con il Regno d’Italia e il mondo stava già cambiando: da Trieste se n’erano andati quasi tutti gli oltre 30 mila “regnicoli”, chi era rimasto saebbe finito nei campi di internamento. Anche la popolazione civile sarebbe presto stata sfollata perché Trieste si trovava immediatamente a ridosso del fronte e perché era obiettivo di incursioni navali e aeree italiane. I bombardamenti aerei avrebbero provocato parecchie vittime civili, soprattutto donne e bambini del rione di Servola, che aveva la sfortuna di trovarsi vicino all’Arsenale del Lloyd e ai cantieri navali.

Presto la popolazione si sarebbe ridotta della metà e Trieste sarebbe diventata una città fantasma. Ecco come Italo Svevo – Ettore Schmitz, irredentista – descrive le reazioni all’entata in guerra dell’Italia:

«Il passeggio di S. Andrea è vuoto più del solito e il sobborgo di S. Giacomo è meno del solito affollato. Dicono che tutto il sobborgo si sia riversato sulla città. Dobbiamo discendere dalla carrozza dopo aver passata la galleria di Montuzza. Il Piccolo che giace al suo sbocco è in fiamme. Nella chiara sera lunare le fiamme rosse gigantesche lambiscono ora le case dalla parte della Barriera Vecchia ora il tetto del Monte di Pietà che giace dall’altra parte. Capisco subito che non occorre neppure andar diritti per la propria strada per non correre alcun pericolo. I saccheggiatori e gl’incendiarii sono di buonissimo umore. Nessuno li impedisce. Sono occupati con la roba e non hanno alcun rancore per le persone. Nella folla non c’è dissenso o chi dissente tace. Vedo d’intorno degli operai che guardano alla distruzione del giornale che da tanti anni è il loro cibo quotidiano e tacciono. Una donna affannata e dalle mani sucide dal fronte madido ci si avvicina. Uscì allora dal nucleo di gente che operò la distruzione. Penso che qualche cosa s’agiti nella sua coscienza perché mi si accosta e sente il bisogno di avere la mia approvazione: – Noi semo tuti Italiani. Ma i’ ne la ga fata tropo sporca. Farne la guera dopo che sofrimo tanto da diese mesi.
[…]
Io credo che gli stessi individui furono dappertutto i caporioni delle devastazioni. Poche devastazioni avvenivano contemporaneamente. Si susseguivano. Naturalmente che i caporioni che condussero la folla all’assalto del
Piccolo erano tanti che potevano dirigere con facilità più di una devastazione dei negozii non tanto ampli del Corso. Più tardi la folla potè anche fare a meno dei direttori e se ne ebbe la prova quando non si presero più di mira gli stabilimenti appartenenti ai regnicoli ma si colpì anche degli austriaci di cui la roba fosse a portata di mano. Si sa che la folla in frangenti simili perde presto certi istinti per acquistarne degli altri. È la maledizione di chi grida per la via per adunare una folla che lo segua. Si può dire che i più colpiti furono i negozii di calzature e quelli di commestibili; pochi liquoristi e quelli veramente regnicoli. A me parve che i caporioni non fossero dei ladri. La violenza durava fino al compimento della distruzione delle saracinesche. Poi un mondo di donne si divideva pacificamente il bottino che alcuni passavano per le porte e le finestre infrante. Pareva una distribuzione pacifica in un bazar. Apprendo che fu appiccato l’incendio al negozio Di Leonardo. È in via Niccolò Machiavelli. È il maggiore deposito di agrumi della città. Occupa tutto il pianoterra di un casone vastissimo. Lo spettacolo è meno imponente che al Piccolo. Fu acceso troppo presto e perciò i pacifici ladri che seguono i violenti scassinatori e incendiarii non arrivarono in tempo. E pensare che c’era già penuria di agrumi in città. Un nero fumo denso esce dalle finestre infrante. Da poche finestre s’intravvede il chiarore dell’incendio».

In base al censimento del 1911, Trieste contava 229.510 abitanti, dei quali 118.959 italiani, 56.916 sloveni, 11.856 tedeschi, 2403 serbocroati, 779 “altri”, 38.597 stranieri. La maggior parte di questi ultimi, come detto erano immigrati del vicino Regno d’Italia, chiamati “regnicoli”. Inutile dire (potrebbe essere altrimenti?) che i dati di questo censimento furono (e sono ancora) contestati da tutti: gli italiani sostengono che le autorità austriache spingevano affinché i dipendenti pubblici dichiarassero una nazionalità diversa dall’italiana, gli sloveni affermano che il numeroso personale di servizio sloveno occupato nelle case della borghesia italiana veniva indotto dai datori di lavoro a dichiararso italiano. Forse, proprio perché contestati da entrambi i lati, i dati di questo censimento tanto irrealistici non sono. 

Sia come sia, Trieste non sarà mai più la stessa, tanto che James Joyce, tornatovi negli anni Venti dopo averci vissuto a lungo prima della guerra, se ne ripartirà deluso perché aveva trovato una cittadina di provincia al posto del vivace di etnie e culture che aveva lasciato poco tempo prima. Comunque qualcosa del mondo di ieri è rimasto: il triestino di oggi non farebbe difficoltà a riconoscersi in questo ritratto dell’austriaco tratteggiato da Zweig: «“Tempo è denaro”, questa concezione energica, nella quale tutti gli uomini seri dell’epoca si trovavano d’accordo, non corrispondeva affatto alla sospetta vita sentimentale dell’austriaco. Questi era abbastanza depravato da credere che il denaro è tempo. Contrariamente agli altri, non voleva fruire del tempo per guadagnar denaro, bensì guadagnar denaro per fruire del tempo. Perché nel tempo che gli era concesso per la vita stavano gli unici beni della sua povertà: guardare, udire, fiutare, gustare, tastare, pensare e sentire e amare.»

Gene piccolo