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I 60 anni dalla tragedia avvenuta nella miniera di Marcinelle, in Belgio, (8 agosto 1956) con i suoi 262 morti, 136 dei quali italiani, fornisce l’occasione per ricordare un altro disastro minerario, avvenuto il 28 febbraio 1940 nella minera di Arsia (Raša), vicino ad Albona (Labin), in Istria. Si registrarono subito 185 morti e 150 intossicati, buona parte dei quali morì nei giorni successivi. Quindi, per quanto riguarda la conta dei morti, quella istriana è la più grave tragedia mineraria che abbia colpito gli italiani (l’Istria dalla fine della prima alla fine della seconda guerra mondiale faceva parte dell’Italia). Come però spesso accade per i fatti che riguardano l’Adriatico Orientale, la vicenda di Arsia è stata dimenticata e messa nella soffitta della storia.

Le miniere di carbone di Albona erano conosciute da tempo, i pozzi bituminosi erano utilizzati fin dal Cinquecento dalla Serenissima repubblica di Venezia per calafatare le navi, lo sfruttamento delle vene di lignite cominciò ai primi dell’Ottocento, grazie ai decreti di Eugenio di Beauharnais, viceré francese del Regno d’Italia napoleonico. Dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’aggressione all’Etiopia (1935) il regime fascista decise ai aumentare l’attività estrattiva. Fu costruito ex novo un borgo mineriario in stile razionalista, progettato dallo stufio Pulitzer di Trieste, chiamato Arsia (dal nome della società mineraria Arsa). Mussolini in persona posò la prima pietra della casa del fascio e si fece ritrarre nelle gallerie mentre spaccava carbone. Arsia fu inaugurata il 4 novembre 1937 e fu il primo borgo minerario costruito dal regime, al quale seguì Carbonia, in Sardegna.

Nel viluppo di 160 chilometri di gallerie, che arrivavano alla profondità di 350 metri, arrivarono a lavorare 7.000 minatori, la cittadina giunse ad avere 10.000 abitanti (oggi ne ha 3200). Siccome parte dei minatori era di etnia croata e slovena, quindi potenzialmente avversa al fascismo, il regime inviò in Istria un cospicuo numero di minatori sardi, pensando di “italianizzare” le miniere. Non calcolò però che la radicata tradizione socialista dei minatori istriani avrebbe invece contagiato i sardi, trasformando pure loro in oppositori del regime.

Per estrarre tanto minerale e quanto più in fretta possibile, si trascurò la sicurezza e due incidenti minori, con una quindicina di morti ciascuno, prennunciarono l’immane tragedia del febbraio 1940. I fascismo mise la sordina al fatto, i giornali di regime quasi non ne parlarono e anche questo ha contribuito a farne perdere la memoria. Scrive Pietro Spirito, giornalista del Piccolo di Trieste in una ricostruzione pubblicata nel febbraio 2015: «In prima battuta il Piccolo aveva relegato la notizia della sciagura in seconda pagina, ponendo l’accento soprattutto sulla tempestività dei soccorsi e l’impegno dei dirigenti di regime. Non mancheranno, però, gli eroi, quelli veri. Come Arrigo Grassi, meccanico di miniera, triestino, classe 1912, che per aiutare i compagni coinvolti nell’esplosione si cala nel pozzo senza respiratore, e dopo averne estratto dieci ancora vivi muore tornando nelle gallerie, perché si era accorto che un compagno mancava all’appello. Sette mesi più tardi sarà insignito di medaglia d’oro al valor civile. In quelle ore non è il solo coraggioso: a prodigarsi nei soccorsi furono anche Giuseppe Nascini, sorvegliante di miniera, e Matteo Viscovich, minatore (entrambi medaglie d’argento al valor civile), oltre a Furio Barontini perito minerario. Anche di loro, a parte gli istriani di Albona, nessuno si ricorda.»

 

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