«Schiavi» è il tema di èStoria 2016 e oggi a Gorizia, alle 12, parlerò di schiavi nell’Italia del Rinascimento con Luca Molà, docente all’università europea di Fiesole, e Giuseppe Trebbi, docente all’università di Trieste.
Lo schiavismo era diffuso in tutta la penisola, durante il medioevo, e anche dopo, genovesi e veneziani importavano “teste” (così si chiamavano gli schiavi) dalla penisola di Crimea. Si trattava di asiatici non cristiani (il papa vietava il commercio di schiavi cristiani), soprattutto tatari e circassi. Molti erano asiatici di stirpe mongolica e quando venivano liberati si mescolavano alle popolazioni locali. I vari personaggi soprannominati “cinese” perché hanno gli occhi leggermente a mandorla (Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil, per esempio) potrebbero essere lontani discendenti proprio di quegli schiavi.
Sappiamo poco riguardo agli schiavi in Piemonte e Lombardia, Bologna abolisce la schiavitù nel 1257, a Venezia, Firenze, Pisa, Lucca si trovano schiavi durante il Quattrocento e anche dopo, Livorno è piena di schiavi fino a tutto il Settecento, nel porto di Civitavecchia si incontrano schiavi fino alla fine del Settecento, a Napoli fino a Seicento inoltrato, in Puglia a inizio Settecento, in Sicilia si hanno notizie di uno schiavo nel 1812, in Sardegna c’erano numerosi schiavi nel 1802. Nel Settecento i papi avevano schiavi turchi nelle loro galee, i cristiani non potevano commerciare in schiavi, ma potevano farlo gli ebrei, e non è raro che ecclesiastici acquistino schiavi per i loro bisogni domestici.
Francesco Morosini, doge di Venezia e capitano generale da mar, muore nel 1694 e nel testamento ricorda “quattro schiave more” probabilmente preda di guerra nelle campagne in Grecia contro gli ottomani. Lascia loro cento ducati a testa come dote nel caso si fossero sposate. Sempre a Venezia (e anche a Fiume) si usava – e si usa – un gioiello che riproduce le fattezze di un nero, moro in veneziano, ovvero il “moreto”, una spilla d’oro con il volto del moro in legno d’ebano.