L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano
Garzanti, 2013
pp. 280, € 22,00
C’è stato un tempo in cui le obbligazioni erano scritte in genovese, i banchieri internazionali parlavano toscano, i broker assicurativi sottoscrivevano polizze in veneziano. Era il tempo in cui gli italiani – pur suddivisi in tanti stati spesso in guerra fra loro – insegnavano al resto del mondo come accedere al credito senza incorrere nei fulmini ecclesiastici sull’usura, come consolidare il debito pubblico, come far fruttare i risparmi e come evitare di farsi rovinare da un naufragio. Era il tempo in cui un rapinatore finiva decapitato e fatto a pezzi; in cui il fallimento di una banca gettava sul lastrico centinaia di famiglie; in cui gli italiani – chiamati indistintamente lombardi e considerati sordidi usurai – incorrevano nelle ire dei re e nell’indignazione dei popoli, pesante fardello che sarebbe in seguito passato sulle spalle degli ebrei. Era la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna, quando i banchieri per lasciare ai posteri un buon ricordo di sé finanziavano i più illustri artisti della loro epoca: gli Scrovegni chiamano Giotto a Padova, come faranno vent’anni più tardi i Bardi e i Peruzzi nella fiorentina basilica di Santa Croce, e i Medici trasformano Firenze uno dei più importanti scrigni d’arte dell’umanità intera. L’Italia dà alla finanza moderna quasi tutti gli strumenti di cui ancora oggi ci serviamo: l’assegno, la girata, lo scoperto e, passando per la chiocciola di internet, la partita doppia, codificata da Luca Pacioli, un geniale matematico in saio francescano amico di Leonardo da Vinci.
Disponibile anche in versione eBook e tascabile
Recensioni
- Il Secolo XIX – 28/04/2013 – Quando il denaro diventò una merce
- Sette – 08/03/2013 – Quando Pinocchio puntava al malloppo
- Il Giornale – 04/03/2013 – Quando l’Italia aveva più mercanti e meno professori. Quindi era ricca.
- Corriere del Veneto – 28/02/2013 – Banche, crac e ducati nel triangolo dell’oro